La competitività del timido

Ho scelto un titolo provocatorio, con parole non corrette, ma che in qualche modo delineano i confini dei concetti di cui vorrei scrivere.

Pensiamo al “timido” come a chi con fatica si espone. Quello che ha un inglese scolastico, ma oh, era bravo a scuola… Insomma un’indicazione la saprebbe chiedere, una volta atterrato a Londra. Ma non lo fa. Non lo fa perché se immagina se stesso sbagliare pronuncia, arrancare alla ricerca del vocabolo giusto o commettere un errore grammaticale, si vergogna, e pure tanto. Si vergogna anche quando immagina se stesso non capire la risposta dell’interlocutore… “Farei finta di aver capito”, si dice, “ma forse l’altro capirebbe che sto facendo finta…”. Che vergogna!
Pensiamo al “timido” come a quello che durante una riunione, un corso, una lezione o forse anche solo in mezzo a un gruppo di conoscenti o amici parla poco, non fa domande, non dà risposte anche se le conosce, non racconta aneddoti. Se lo fa -qualche volta lo fa- è certo di aver parlato male, di essere arrossito, di aver avuto la voce tremula. E si vergogna tutte le volte che ci ripensa.
E pensiamo al “timido” come a chi si priva non solo di queste piccole (davvero così piccole?) esperienze, ma anche di vissuti più grandi. Evitamento su evitamento rischia di costringersi in una comfort zone insoddisfacente e che, probabilmente, è al di sotto delle sue capacità. Finisce per privarsi di esperienze di apprendimento (come faccio ad arrivare ad avere una buona pronuncia dell’inglese se, in inglese, non ci parlo?) e di trovarsi obiettivamente sguarnito di capacità e risorse.

Cosa c’entra allora la competitività? Proviamo a pensare a una ipotetica infanzia del nostro “timido” amico: forse tutte le volte che la sua figura di riferimento cercava di insegnargli qualcosa, lo faceva cercando appunto di in-segnare. Mettere dentro. Mettere dentro un insegnamento senza rispettare tempi, modi e sensibilità del bambino, rischia di risultare una forzatura, con scarsi risultati. E l’insegnante che vede scarsi risultati potrebbe diventare critico verso il suo allievo, potrebbe schernirlo o abbandonarlo a sé, privarlo di attenzione. Potrebbe confrontarlo con gli altri allievi più bravi, potrebbe etichettarlo negativamente. Non nasce in fondo con queste modalità l’ansia da prestazione?

Se la mia performance sarà buona, allora mamma/papà/la maestra mi tratteranno meglio. Diranno che sono bravo, lo racconteranno a tutti con orgoglio, mi confronteranno con gli altri “inferiori” e sorrideranno ammiccando verso di me. Mi sentirò apprezzato.
Nei casi più gravi, mi sentirò amato solo se sarò bravo. Il più bravo.

Il “timido” (mi si passi l’uso improprio del termine, di nuovo) spesso vuole solo essere il più bravo perché non ha imparato che, a non esserlo, va bene lo stesso. Si è di valore e amabili e degni di rispetto TANTO QUANTO prima. Non l’ha imparato. Così come non ha imparato a tollerare quella frustrazione dell’insuccesso, perché quando ne ha avuti da piccolino, di insuccessi, nessuno si è seduto accanto a lui con amore a verbalizzare quelle emozioni, quella frustrazione, a normalizzare senza banalizzare, ad abbracciarle, a osservare con rispetto. Ed eccola, la vergogna. Cos’è successo durante l’infanzia? Cos’è successo nella relazione coi propri genitori o con altri adulti di riferimento? Se sbaglio e mamma/papà/la maestra mi dicono quelle brutte cose, mi guardano in quel brutto modo o non mi considerano più, beh allora vuol dire che c’è qualcosa in me di sbagliato, gli altri lo vedranno.
Nasce qui la vergogna.

A volte, probabilmente più spesso, il “timido” prende la strada dell’evitamento descritta prima. Perché, facile: se non faccio non sbaglio, se non mi espongo nessuno noterà quanto io sia sbagliato. Se non partecipo alla competizione, non posso perderla.

Altre volte però il “timido” persegue con tenacia un’utopica perfezione e si espone, e vince, ed eccelle anche di frequente. E ne continua a volere come un drogato cerca la sua droga.

La -nascosta- timidezza del competitivo.

Due facce della stessa medaglia.

8 esercizi per “disintossicarsi” dall’approvazione sociale

1. Rifletti sulle conseguenze: fare qualcosa per essere apprezzati dagli altri può effettivamente raggiungere l’obiettivo. Gli altri ci ringraziano, ci lusingano ecc. Ma ci rimarrà il dubbio: hanno fatto quel complimento alla vera me? Alla me più autentica? O a una costruzione forse poco spontanea e reale di me stessa? La conseguenza quindi è non scoprire se gli altri ci apprezzerebbero “al naturale”, e il nostro sé continuerà a sentirsi inadeguato e, indovina? In cerca di approvazione. Fare qualcosa solo per essere apprezzati dagli altri innesca come conseguenza un circolo vizioso in cui, alla fine, nel nostro profondo, non ci sentiamo mai adeguati.
2. Fai piccoli esperimenti: inizia dall’ambito di vita che ti procura meno ansia e da piccoli comportamenti. In sostanza individua cose che non fai nel timore di non piacere agli altri… e falle! Una piccola cosa ogni giorno, per due settimane. Sperimenta!
3. Rifletti sulle cause: dove e quando e da chi hai imparato che il giudizio degli altri è qualcosa da temere? Sei sicura che ora, da adulta, hai ancora motivo di averne paura?
4. Usa una visione d’insieme: immagino ti sia capitato più volte di esprimere un giudizio negativo su una persona a cui vuoi bene o di non approvare qualche suo atteggiamento. Passata la rabbia e il disappunto, hai forse smesso di volerle bene o di pensare cose belle di quella persona? Credo di no. E lo stesso vale per te: quando una persona cara ti disapprova, lo fa in quel momento (che finirà), non sta smettendo di amarti!
5. Scegli: a volte nel cercare di piacere a tutti dimentichiamo che… non tutti ci piacciono! Sei sicura di voler utilizzare tante energie nel voler piacere a qualcuno che a te non piace? Scegli a chi dare il meglio di te.
6. Non “patologizzare” per forza: tutti amiamo piacere. Quindi, semplicemente, a volte accetta questo lato di te con leggerezza, ché leggerezza non è superficialità, ma a volte è saper giocare, sorridere, accettare.
7. Mantieni una salda connessione con le tue emozioni e le tue sensazioni: a furia di fare le cose per ottenere approvazione altrui, si rischia di non riconoscere più i propri desideri e le proprie preferenze. È importante allora ascoltarsi con attenzione: cosa desidero? Mi va realmente di fare questa cosa o no? Cosa mi dice la “pancia”? Facciamo in modo di farcele più spesso possibile, queste domande, e agiamo il più possibile sulla base delle risposte.
8. Chiedi aiuto: sai che hai questo problema, ma proprio non riesci a cambiare? È frequente, soprattutto quando determinati atteggiamenti sussistono da tanto tempo ed hanno alle spalle ferite profonde. Chiedi aiuto a un professionista… potrebbe essere un viaggio tanto intenso quanto meraviglioso dentro di te. 

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